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Home restaurant: il social eating tra ristorazione e abusivismo

Nella sharing economy, uno dei trend che ha preso piede in Italia è l’home restaurant (clicca sul link per un nostro precedente articolo), si tratta di una tendenza nata nel 2006 con i guerilla restaurant a New York, diffusasi soprattutto grazie ai social network.

L’Home Restaurant è la possibilità di trasformare la propria casa e la propria cucina in un ristorante aperto per amici, conoscenti e perfetti sconosciuti che avranno la possibilità di sperimentare la cucina originale dei luoghi frequentati abitualmente o in occasione di un viaggio.
Il contatto si stabilisce via web: basta selezionare l’evento su una delle tante piattaforme di social eating, prenotare e pagare.

Gli Home Restaurant spesso creano un valore aggiunto volto alla scoperta di un territorio grazie alle ricette tipiche realizzate con prodotti locali.
Una passione quindi, quella della cucina, che si può trasformare in un vero e proprio business rispettando alcune regole previste dalla legge di ciascun Paese.

In Italia non esiste ancora una specifica normativa che disciplini questa precisa attività.
Attualmente, l’unica interpretazione del fenomeno “home restaurant” dal punto di vista del trattamento giuridico è stata data dalla risoluzione Mise n. 50481/2015, con cui il Ministero dello Sviluppo Economico, rispondendo al quesito posto da una Camera di commercio – che chiedeva informazioni inerenti l’apertura e la gestione di un’attività che si caratterizza per la preparazione di pranzi e cene presso un domicilio privato in giorni dedicati e per poche persone, trattate come ospiti personali ma paganti – ha equiparato l’attività di Home Restaurant ad una vera e propria attività di ristorazione e quindi di somministrazione di alimenti e bevande, come già parlatone in questo articolo.

Ad avviso del Ministero, l’attività, anche se esercitata solo in alcuni giorni e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto si tratta comunque di locali attrezzati aperti alla clientela.

Vedi anche  Flexible benefits ad ampio raggio con la Legge di Stabilità 2016

E non si può che parlare di clientela in considerazione del fatto che la fornitura delle prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo e, quindi, “anche con l’innovativa modalità, l’attività in discorso si esplica quale attività economica in senso proprio”; di conseguenza, essa “non può considerarsi un’attività libera e pertanto non assoggettabile ad alcuna previsione normativa tra quelle applicabili ai soggetti che esercitano un’attività di somministrazione di alimenti e bevande” .

Quindi considerata la modalità con la quale i soggetti interessati intendono esercitare, devono applicarsi le disposizioni di cui al citato D.lgs, e quindi – previo possesso dei requisiti di onorabilità nonché professionali di cui all’articolo 71 del D. Lgs. 26 marzo 2010, n. 59 – detti soggetti sono tenuti a presentare la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) o a richiedere l’autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate.

Si deve aggiungere che, trattandosi di attività a tutti gli effetti disciplinata dalle norme in materia di somministrazione di alimenti e bevande, dovrebbero esser anche rispettate la normativa urbanistico edilizia e quella igienico-sanitaria.

Quindi, fintanto che l’unico disegno di legge in materia di Home food presentato nel 2014 (DDL 1271) non sarà discusso e approvato, l’attività è da considerare attività d’impresa, con l’obbligo di iscrizione al Registro delle imprese, tenuta ad adempimenti fiscali e contributivi.
Diversamente, l’attività esercitata dovrebbe essere considerata abusiva, con l’applicazione delle consequenziali sanzioni.

La FIPE Confcommercio Lecce ha redatto un elenco con alcuni degli adempimenti necessari e delle principali violazioni di legge poste in essere da chi adibisce abitazioni a Pubblici Esercizi senza rispettare la citata normativa.

A mero titolo di esempio se ne citano solo alcune:
• Comunicazione al Questore, in caso di circoli, ex comma 2 articolo 86 TULPS;
• Licenza UTF per prodotti alcolici (art. 29 D.lgs 504/1995);
• Mancato accertamento della sorvegliabilità dei locali (di competenza della autorità di PS per quelli posti a livello superiore a quello stradale);
• Assenza piano HACCP; • Nomina responsabile HACCP ed attestato del relativo corso; • Tabelle alcolemiche in caso di chiusura dopo le ore 24.00;
Etilometro a disposizione dei clienti in caso di chiusura dopo le ore 24.00;
• Indicazione allergeni presenti nei prodotti somministrati;
• Abbonamento speciale RAI per TV o altro apparecchio diffusione musica;
• Versamenti diritti di autore e connessi SIAE ed SCF;
Tracciabilità e rintracciabilità alimenti.

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