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Il conto della Turchia. Il prezzo pagato dall’Europa alla crisi migratoria

L’accordo rappresenta la terza tappa del piano d’azione comune sulla crisi migratoria attivato tra UE e Turchia nel novembre del 2015, da quando cioè l’Europa ha deciso di chiudere il “corridoio balcanico” che consentiva ai profughi di raggiungere dalla Grecia, attraverso la Macedonia, il cuore del continente. L’illusione è quella di risolvere il problema migratorio spostandolo di qualche centinaio di chilometri, in Turchia. Il rifiuto dogmatico di accogliere poche migliaia di profughi in un area di 500 milioni di persone ha indotto i paesi europei a stringere a qualsiasi prezzo un patto con il governo turco. E in questi casi il conto è sempre salato.

I termini dell’accordo

Nel preambolo , sotto una generica condanna degli episodi di terrorismo e dell’attentato di Ankara di domenica scorsa attribuito ad una cellula curda, viene soddisfatta, seppur velatamente, la precisa richiesta del Presidente turco Erdogan di una legittimazione europea delle proprie politiche interne di repressione della comunità curda e, di riflesso, di quelle esterne legate al ruolo della Turchia nella crisi siriana. I curdi sono un popolo che dal crollo dell’Impero Ottomano si batte per ottenere uno stato proprio su lembi di territorio turco, siriano, iracheno e iraniano. Con l’esplosione della crisi siriana e l’eroica resistenza opposta dalla comunità curda all’avanzata dell’Isis la questione del suo riconoscimento ha ottenuto una certa considerazione internazionale. L’indipendenza dei curdi rappresenta per la Turchia un vero e proprio incubo patriottico ed in questa chiave vanno lette le politiche di connivenza con lo Stato Islamico che la Turchia ha spesso adottato nella guerra in Siria.

Tuttavia Erdogan sa benissimo che non sono le vittorie simboliche a riempire il portafogli e il valore di un accordo di questa portata non si può certo monetizzare a parole. Dei 500 milioni offerti a novembre dall’UE per finanziare la permanenza dei rifugiati in territorio turco Erdogan ne ha ottenuti 6 miliardi, 3 subito e 3 entro il 2018. In cambio la Turchia riprenderà in carico i profughi partiti dal suo territorio e bloccati sull’uscio fangoso dell’Europa. Nel rispetto formale delle convenzioni sui diritti umani non si potranno effettuare espulsioni di massa ma si dovrà valutare caso per caso e verranno rispediti in Turchia solo coloro che non avranno i requisiti per formulare domanda d’asilo o la cui richiesta una volta formulata venga bocciata dalle autorità greche. In ogni caso il meccanismo prevede che per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all’UE. Naturalmente le spese di viaggio in entrambe le direzioni si intendono a carico dell’Europa.

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A primo acchito il rapporto 1 a 1 non avrebbe senso e non giustificherebbe i 6 miliardi pagati alla Turchia a meno che non si legga tra le righe di una generica “guerra ai trafficanti di esseri umani” l’intenzione precisa di scoraggiare i viaggi verso l’Europa con la prospettiva di una lunghissima attesa nei “cimiteri di anime” greci. L’ottenimento di un visto d’ingresso potrebbe richiedere anni e, nel peggiore dei casi, tradursi in un rimpatrio forzoso in territorio turco. In teoria si vuole lanciare il segnale che mettersi in marcia verso l’Europa non equivale alla garanzia di poterci entrare. In pratica resta dubbia l’efficacia di tale messaggio per gente che ha perso tutto in una guerra in cui l’Europa ha le sue responsabilità.

Più che bloccare, nel migliore dei casi, l’UE riuscirà a razionare il flusso in ingresso. A tal proposito il punto 2 dell’accordo affronta il tema spinoso della distribuzione interna dei migranti. In sintesi i paesi europei si impegnano ad accogliere 18000 immigrati regolari provenienti dalla Turchia ripartendoli secondo gli accordi sul ricollocamento del settembre 2015. Il tetto potrà essere aumentato fino a 52000 persone, superate le quali gli stati membri sono sciolti da qualsiasi obbligo di accoglienza ma potranno procedere singolarmente e su base volontaria ad ulteriori “ammissioni umanitarie”.

Ma se le “ammissioni umanitarie” sono su base volontaria c’è un altro tipo di “ammissioni” di natura politica che la Turchia pone come obbligatorie. Sono quelle che riguardano, da una parte, la Turchia come popolo con l’impegno dell’Europa a liberalizzare entro giugno i visti di ingresso nel suo territorio per i cittadini turchi; dall’altra la Turchia come stato con l’incarico della Commissione Europea ad accelerare le procedure di adesione della Turchia all’Unione Europea con l’apertura di 2 dei 35 capitoli tematici (il 17 e il 33 in materia di politiche economiche e di contribuzione al budget europeo) che rappresentano il percorso negoziale con il quale gli stati richiedenti, attraverso un’armonizzazione coi principi europei, ottengono l’ingresso nell’Unione Europea.

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In ambito civile un accordo siffatto, con un enorme sproporzione tra il prezzo pagato e l’ipotetico beneficio ricevuto, andrebbe di fronte al giudice per manifesta incapacità di intendere e di volere di uno dei due contraenti. Non siamo molto lontani. A ben vedere l’Europa sta pagando la propria incapacità a confrontarsi con un fenomeno epocale, quello migratorio, che piaccia o non piaccia non può essere impedito ma solamente gestito.

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