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Pochi contributi e niente pensione per i 36enni di oggi

Il Presidente dell’Inps Tito Boeri ha lanciato un allarme sul destino della “generazione 1980” e, in particolare, nel riferirsi ai titolari di contratti precari ha affermato che “Con le regole del contributivo le persone che non raggiungono un certo ammontare di prestazione prima dell’età pensionabile rischiano di non avere alcun reddito” e questo è giustificabile dal fatto che purtroppo per i contratti di lavoro discontinui non si riescono ad accumulare contributi sufficienti per avere diritto a un assegno dignitoso.

In base ai dati Inps parrebbe quindi che la generazione 1980 rischi di lavorare fino a 75 anni e prendere un assegno del 25% – questo nell’ipotesi di un tasso di crescita del Pil dell’1%- più basso rispetto ai pensionati di oggi, in quanto -sempre in base alle simulazioni Inps- chi è nato nel 1980 incasserà mediamente una pensione nel 2050 pari a 1.593 euro, contro l’importo medio di 1.703 euro percepito mediamente oggi da chi è nato nel 1945.
Questo perché, dalle analisi dell’istituto dell’ “universo di lavoratori dipendenti, ma anche artigiani” nati nel 1980 è emerso che mediamente ognuno di loro si ritrova ad avere “una discontinuità contributiva, legata probabilmente a episodi di disoccupazione, di circa due anni”.

In pratica, chi oggi ha 36 anni, nel corso della vita lavorativa, non avrebbe pagato i contributi per un biennio. Molti hanno “pause contributive” più lunghe, tutto ciò si tramuta in una maggiore attesa per aver diritto all’assegno, nonché a spostare la data di uscita dal 2050 al “2052, 2053 o anche – seppure per un quota limitata di lavoratori – 2055″, aggiungendo quindi che “avremo problemi seri diadeguatezza, che non potrebbero che aumentare nel caso di una crescita economica minore. Questo aprirà anche un problema molto serio di povertà per chi perderà il lavoro prima dei 70 anni”.

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Sul tema è intervenuto anche Padoan, Ministro dell’economia, affermando che “Sicuramente ci sono margini per ragionare su strumenti e incentivi per migliorare le opportunità per chi vuole andare in pensione e per chi entra nel mercato del lavoro”.

Ma la realtà dei fatti la conosciamo bene. L’età media delle popolazione si è ormai alzata molto, con aspettative di vita molto alte, i (pochissimi) giovani in età lavorativa tendono ad emigrare per cercare paesi che garantiscano sistemi meritocratici e remunerativi (ricordiamo che le aziende estere spesso sostengono minori costi rispetto a quelle italiane). Traducendo: molti pensionati e pochi lavoratori che possono versare i contributi agli istituti di previdenza.

Per semplificare (e di molto) il concetto, proviamo a pensare all’Inps (o a qualsiasi altro ente previdenziale) applicando la teoria dei vasi comunicanti: da un lato chi versa oggi (i lavoratori in forza) e dall’altro chi incassa oggi (i pensionati attuali). Andando in avanti nel tempo, se domani non ci saranno più lavoratori a versare contributi, le pensioni di domani (quelle per cui stiamo versando oggi) non potranno essere più pagate. Questo “buco” è stato causato non solo dalla riduzione di natalità e dalle scarse opportunità lavorative regolari che permettono di versare i contributi, ma anche dal fatto che solo ora la pensione viene calcolata col metodo contributivo, mentre, da che nacque l’INPS (parliamo dei lontani anni ’60), si calcolava con il metodo retributivo, creando pertanto disfunzioni di cassa non da poco, in quanto l’Inps eroga per queste ultime molto più di quanto non abbia incassato. E questo è un problema davvero non da sottovalutare ma che si fa passare in sordina.

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