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Uber: i conducenti sono dipendenti o autonomi?

Una nuova class action è stata presentata in America contro Uber nel tribunale federale del Distretto settentrionale dell’Illinois per sperare di chiarire la spinosa questione.
Una causa che sotto diversi aspetti replica le cause già svoltesi in Massachusetts e California, recentemente concluse con la soccombenza di Uber, pagando ai conducenti un ammontare di $ 100 milioni.

La nuova causa, presentata per l’ex conducente Uber Lorri Trosper dall’avvocato Brian Mahany, permetterebbe agli autisti di tutti gli Stati Uniti – ad eccezione della California o Massachusetts – di sottoscriverla.

Le cause legali di Uber in California e Massachusetts hanno affrontato il tanto dibattuto tema sul trattamento dei conducenti di Uber ovvero se la società li tratta come appaltatori-imprenditori o come dipendenti, senza tuttavia dare loro i vantaggi che un dipendente a tempo pieno può aspettarsi (ferie pagate, straordinari, assicurazione sanitaria, etc). Questo in quanto – in base ad una ricerca condotta dai ricercatori della Data & Society Research Institute e della New York University -l’algoritmo con cui Uber gestirebbe i conducenti, si configurerebbe come una forma di controllo e sorveglianza e, il sistema di valutazione che si avvale dei voti degli utenti, sarebbe niente altro che un sostituto del controllo aziendale diretto.

Insomma, i liberi professionisti non sarebbero poi così liberi di lavorare da autonomi (tipicità dei servizi “on demand”). Ma, essendo soggetti a obblighi e restrizioni imposte dalla società, potrebbero presto essere considerati alla stregua di dipendenti di un datore di lavoro tradizionale.

Il concetto chiave è che di base il lavoratore sarebbe soggetto a degli obblighi verso la società, tanto da considerare i conducenti come dipendenti, in quanto, ogniqualvolta questi ultimi usano Uber, al cliente viene chiesto di dare un voto all’esperienza e se l’autista non ha una media di voto di un certo livello, Uber lo disattiva, e lui non potrà più lavorare “a mezzo” di Uber.

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Nella causa statunitense Uber ha accettato di comunicare in modo più chiaro con gli autisti su come possano essere tagliati fuori dall’utilizzo della piattaforma di Uber (è emerso che Uber cancella tutti gli autisti che hanno una media di voto inferiore a 4,5 su 5) e fornire più servizi ai conducenti in Massachusetts e California. Ma l’avv. Mahany – in un’intervista con la Inc.com – ha espresso la sua profonda delusione nel vedere arrivare alla fine del mese scorso la transazione e che per Uber in fondo “Si tratta di aver semplicemente gettato qualche soldo”, “Ovviamente pensiamo che questo non sia giusto per i conducenti e vogliamo una risoluzione nazionale che risolva la questione.”

Dall’accordo, che ha avuto luogo il 21 aprile scorso, sono poi proliferate numerose cause in tutti gli States dove espressamente si chiede ai giudici il riconoscimento da parte di Uber dei conducenti quali lavoratori dipendenti e quindi di riconoscere ai conducenti l’attribuzione degli straordinari non pagati e delle spese, più un giusto indennizzo.

“Molte persone stanno lavorando nella gig economy* con più lavoretti diversi”, dice l’avv. Mahany ad Inc.com, “Per coloro che usano questi lavori come sostentamento, senza nemmeno avere un salario minimo, non si tratta di un trattamento equo.”

La risposta di Uber alla causa è essenzialmente la stessa dichiarazione che è stata data in risposta alle domande dei giornalisti sulle precedenti class action e su alcuni problemi che coinvolgono la questione dipendente-imprenditore per quasi un anno: “Quasi il 90 per cento dei conducenti dicono che il motivo principale per cui usano Uber è perché amano essere il capo di loro stessi. Come dipendenti i piloti avrebbero impostato turni, guadagnato un salario orario fisso e perso la capacità di guidare con altre di ridesharing -come pure la flessibilità personale cui loro danno più valore. “

La denuncia di cui abbiamo accennato all’inizio dell’articolo, quella nell’Illinois mossa dall’ex conducente Lorri Trosper, è partita proprio dall’assunzione di venir trattata come un’impiegata a tempo pieno – essendo invece classificata come un imprenditore.
Dalla denuncia si legge che tutto ciò che l’ex autista farebbe per Uber è diretto e controllato da Uber stesso e che non c’è nulla che evidenzi la sua indipendenza da Uber nelle attività lavorative giornaliere che l’ex autista fa. Tutto quello che fa nel suo lavoro è controllato da Uber, affermando quindi che “Non è indipendente da Uber ma è una dipendente di Uber”.

La società è oggetto ormai di più di una dozzina di cause legali in tutta l’America. Più di recente, Uber ha risolto una causa contro la presunta discriminazione nei confronti di passeggeri non vedenti. Ha così accettato di pagare l’Associazione Nazionale per i Ciechi $ 225.000 e di vietare dalla sua piattaforma i conducenti che rifiutano passeggeri non vedenti o rifiutano di consentire l’accesso di un animale nel loro veicolo.

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Certo tutti gli Stati – Italia in primis – dovrebbero immediatamente rispondere alla sharing economy con celeri ed innovative normative espressamente dedicate alle nuove economie di mercato nascenti, soprattutto per inquadrare i lavoratori di queste nuove economie, che oggi lavorano per le più disparate piattaforme senza tutele e per lungo tempo.

Intanto in Italia…

Immagine di Susie Cagle
Immagine di Susie Cagle

*Con gig economy si intende un modello economico sempre più diffuso dove non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze e domanda e offerta vengono gestite online attraverso piattaforme e app dedicate.

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