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La dottrina sociale di Papa Francesco che non piace a Confindustria

Al Giubileo dell’Industria, il primo storico incontro ufficiale tra Confindustria e Papa Francesco (26-27 febbraio 2016), è lecito dubitare che ci siano stati, tra i tanti scroscianti, molti applausi sinceri. Durante il suo intervento Bergoglio ha toccato temi ben conosciuti dai nostri imprenditori ma, come spesso accade, non ha utilizzato il punto di vista di chi è al comando della nave ma di chi sta chiuso nella stiva a remare.

Secondo Papa Francesco “Non c’è etica del fare impresa che tenga né discussioni alte sui valori del lavoro se esse non sono in grado di dare una risposta a un padre o a una madre di famiglia angosciato per non riuscire ad assicurare un futuro e nemmeno un presente ai propri figli. Al centro di ogni impresa vi sia dunque l’uomo: non quello astratto, ideale, teorico, ma quello concreto, con i suoi sogni, le sue necessità, le sue speranze e le sue fatiche…guardate la faccia dei giovani e di tutti quei potenziali lavoratori prigionieri della precarietà o di lunghi periodi di disoccupazione. Che il mercato non sia un assoluto, ma onori le esigenze della giustizia e, in ultima analisi, della dignità della persona. Perché non c’è libertà senza giustizia e non c’è giustizia senza il rispetto della dignità di ciascuno”.

Parole che suonano, indubbiamente, come una critica puntuale alle politiche di riduzioni di tutela, maggiore flessibilità e aumento della produttività chieste e in parte ottenute da Confindustria nell’ultimo ventennio. Tra chiesa cattolica e “capitale” non c’è mai stata identità di vedute ma è indubbio che quest’ultimo, prima dell’arrivo di Bergoglio, ne abbia ricevuto un indiscusso sostegno morale, sia nel diritto passivo alla proprietà privata dei mezzi di produzione (terra, fabbrica, macchinari) sia nel diritto attivo di costruire profitto utilizzando il lavoro altrui. Il primo di questi principi è affermato fin dall’enciclica che inaugura la dottrina sociale della chiesa, la Rerum Novarum di Leone XIII (1891), nella quale viene sancita la “sacralità” della proprietà privata. Il secondo verrà espresso ai suoi massimi termini nella Centesimus Annus di Giovanni Paolo II (1991) che riconosce al rischio d’impresa e alla libera iniziativa economica valore paradigmatico per i comportamenti dell’uomo in qualsiasi campo della vita, ignari delle ricadute socioeconomiche che l’estremizzazione di questa forma di individualismo avrebbe comportato negli anni a venire.

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I predecessori di Papa Francesco, con rare eccezioni, tra i diritti concernenti la libertà economica individuale e quelli concernenti il bene comune hanno attribuito la loro preferenza ai primi. Ma, soprattutto in questo primo scorcio di secolo, il pendolo si è decisamente spostato sui secondi. La nuova dottrina sociale di Bergoglio non considera, come le dottrine precedenti, i mali del sistema capitalista come frutti malati di un albero sano ma ritiene malata la pianta nel suo insieme. Nell’Evangelii Gaudium del 2013 denuncia: “l’attuale sistema economico è ingiusto alla radice. Questa economia uccide, fa prevalere la legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. L’attuale cultura dello scarto ha creato qualcosa di nuovo: gli esclusi non sono sfruttati ma rifiuti, avanzi” . La critica è radicale e si estende, nell’enciclica Laudato si (2015), alle conseguenze sull’ambiente considerato il primo bene comune, la cui compromissione colpisce innanzitutto gli ultimi, i poveri, gli emarginati.

Papa Francesco aggiunge un altro livello alla sua critica, quello che riguarda la dimensione dell’uomo nei luoghi di lavoro. Il richiamo a un nuovo umanesimo del lavoro muove dall’osservazione della progressiva disumanizzazione di quello che potremmo chiamare “homo azienda”. Una mutazione antropologica in cui tutti i valori vengono subordinati a quello aziendale. Al lavoratore non viene più richiesta una semplice erogazione di forza lavoro in cambio di denaro, ma viene imposta un’adesione esistenziale alla missione di profitto dell’azienda in cui opera.

Il lavoro, la sua qualità, la sua facoltà di dare o togliere dignità restano centrali per l’uomo contemporaneo. Al convegno “Fare Insieme”, che ha preparato l’incontro vero e proprio di Confindustria con Papa Francesco, Gianfranco Ravasi, Cardinale e Ministro della Cultura dello Stato Pontificio ha affidato l’ultima considerazione alle parole di Primo Levi, che nel suo romanzo dedicato al lavoro -La chiave a stella-, scriveva: “se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”.

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