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Petrolio: i perché di una delle più importanti crisi della storia

Dai 115 dollari al barile nel 2008 ai circa 30 dollari dell’ultima seduta di borsa quella del prezzo del petrolio più che a una caduta assomiglia ad una vera e propria valanga.

Due sono le ragioni di ordine politico ed economico:
– Innanzitutto la scelta dell’Arabia Saudita, attraverso una consapevole riduzione dei prezzi, di mettere fuori mercato il cosiddetto shale oil, il greggio statunitense proveniente da un rivoluzionario ma più costoso sistema di estrazione da frantumi di roccia.
– In combinato, l’ambiguo rapporto tra il basso prezzo del petrolio e la crescita globale. Trovare petrolio a buon mercato può essere un formidabile stimolo per l’aumento della produzione di beni e ricchezza ma il suo basso costo potrebbe anche essere la conseguenza di una contrazione della produzione e quindi della richiesta di materie prime. Che è esattamente ciò che sta avvenendo dal 2008 a oggi.

In uno scenario in cui il lungo ciclo recessivo non si è ancora chiuso, o perlomeno non si è ancora aperto quello espansivo, con il petrolio sotto i 30 dollari al barile, i ministri di Arabia Saudita, Russia, Venezuela e Qatar hanno deciso di riunirsi per adottare le contromisure del caso. L’accordo raggiunto martedì scorso a Doha prevede un congelamento della produzione di greggio ai livelli di gennaio. Ma l’operazione per avere efficacia deve ottenere il beneplacito dell’Iran, recentemente riabilitato dopo 4 anni di embargo, che scalpita per riconquistare la sua fetta di mercato. Il cammino si presenta difficile e sarà obbligatorio passare per le “strettoie” dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio.

L’OPEC è un cartello di Paesi, quasi tutti arabi, che stabilisce le politiche di estrazione e vendita del 78% delle riserve mondiali di petrolio. Nata nel 1960, per sottrarre alle multinazionali dell’energia (le sette sorelle) il controllo del mercato del greggio, ha rappresentato una leva politico-economica in grado di condizionare pesantemente l’andamento dell’economia globale. Ma per l’OPEC sono anche passate e passano le linee di frattura politica del mondo arabo. Attualmente la faglia divide, contrapposti in diversi teatri di guerra, il mondo sunnita da quello sciita. Da un lato Arabia Saudita, Kuwait, Qatar e compagnia. Dall’altra Iran e Iraq.

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La cauta apertura del blocco sciita alla proposta di congelamento della produzione è stata premiata con un aumento del prezzo del petrolio del 15% nell’ultima settimana. Tuttavia questa spinta si è subito smorzata e non sembra preludere ad un rapido ritorno alle quotazioni ottimali. In ultima istanza, rispetto alla domanda, l’offerta di petrolio resta a livelli molto elevati.

Il sospetto è che questo non dipenda solo da ragioni congiunturali ma ve ne siano altre di ordine strutturale. Secondo la tesi sostenuta anche da Harold James sulle colonne del Sole 24 Ore il petrolio potrebbe trovarsi nella fase discendente di una parabola comune alle altre materie prime che lo hanno preceduto nella storia. Il legno, il carbone, il ferro, l’acciaio dopo aver conosciuto periodi di grande sviluppo sono declinati man mano che altre risorse energetiche o materie prime più funzionali ne prendevano il posto. In altre parole non è escluso che l’ingente quantità di greggio immessa sul mercato dipenda dalla volontà di fare cassa, molta e subito, prima che le politiche energetiche dei paesi più sviluppati marcino decise verso lo sfruttamento di fonti di energia alternative.

Non è dato sapere se in occidente la classe dirigente avrà il coraggio e la volontà di sacrificare gli interessi economici immediati a vantaggio di una lungimirante politica di salvaguardia del pianeta. Più verosimilmente il petrolio, pur perdendo buona parte della sua importanza strategica, continuerà ad esistere ma all’interno di un “bouquet” di fonti energetiche che comprenderà certamente le rinnovabili ma anche, ad esempio, un nucleare spacciato come “più sicuro”.

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