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Assolto l’imprenditore che non pagò il fisco per pagare gli stipendi agli operai

La legge non è il vangelo. E’ scritta da uomini che siedono in parlamenti permeati da interessi economici e pressioni lobbistiche. Non è né giusta né ingiusta, semplicemente riflette la natura dello Stato e i rapporti di forza esistenti in società. Nelle socialdemocrazie, tuttavia, dove lo Stato dovrebbe mitigare la regola del più forte, la legge a volte coincide con la giustizia. E anche se più spesso è la giustizia a soccombere alla legge in alcuni casi può accadere che la giustizia batta la legge in casa propria, in un’aula di tribunale.

La vicenda dell’imprenditore tessile di Nerviano destinatario di una recente sentenza del tribunale di Milano rientra tra questi rarissimi casi. Il giudice Ilio Mannucci Pacini ha infatti assolto un imprenditore che nel 2010, in una situazione di grave crisi economica, invece di pagare il fisco ha continuato a pagare i suoi 155 operai. La sentenza di assoluzione è interessante non perché l’imprenditore fosse impossibilitato a pagare i 730 mila euro di tasse ereditate dall’illecita gestione precedente (in questi casi esiste già una giurisprudenza favorevole all’assoluzione) ma perché in presenza di risorse limitate, anziché pagare il fisco ha utilizzato quel denaro per tenere in piedi l’azienda. Su di lui infatti oltre agli stipendi dei dipendenti gravava la ristrutturazione dei depuratori dell’acqua, una spesa da 6 milioni e mezzo, imposta dall’ARPA-Lombardia pena la chiusura dell’esercizio.

Se l’imprenditore, per ragioni imprevedibili e indipendenti dalla sua volontà, dopo essere ricorso a tutte le misure possibili comprese quelle pregiudizievoli l’esistenza stessa dell’azienda, si fosse trovato nella condizione di non poter pagare il fisco sarebbe stato assolto “perché il fatto non sussiste”. Nella recente sentenza invece il “fatto sussiste” eccome. L’imprenditore milanese ha consapevolmente omesso di pagare il fisco destinando le risorse altrove, al salvataggio dell’azienda e al pagamento degli stipendi dei dipendenti. Il dispositivo assolutorio infatti è interessante perché non si basa sul criterio oggettivo dell’esistenza del reato ma sul criterio soggettivo della non “colpevolezza” di chi il reato lo ha commesso. Secondo la corte se la “colpevolezza” è “l’insieme dei requisiti dai quali dipende la possibilità di muovere all’agente un rimprovero per aver commesso un fatto antigiuridico” nessun fatto ”soggettivamente non rimproverabile può essere penalmente sanzionato”. In sostanza la condotta dell’imputato costituisce reato ma all’imputato non è possibile muovere un rimprovero e quindi una sanzione.

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Per non essere colpevole delle proprie colpe l’imprenditore di ragioni ne aveva più d’una: a) la società stava attraversando una seria crisi di mercato che aveva determinato un grave calo della produzione e del fatturato, facendo registrare perdite per oltre un milione di euro; b) molti clienti della società erano falliti, comportando l’inadempimento di ingenti crediti; c) gli istituti di credito avevano revocato le loro linee di credito alla società; d) l’Arpa e la Regione avevano imposto, pena il blocco della produzione, di modificare e ampliare l’impianto di depurazione dell’azienda, per mettere a norma il quale fu necessario un ingente investimento non finanziato dalle banche; e) era stato necessario regolarizzare la posizione della società con il fisco, a causa di ingenti illeciti fiscali commessi da precedenti amministratori, il che aveva comportato il continuo pagamento di cospicue rate all’erario; f) si era continuato a pagare le retribuzioni di tutti i lavoratori impiegati nell’azienda, senza fare ricorso a misure assistenziali a carico dello Stato; g) nel 2013 è stato concordato con l’Agenzia delle Entrate un piano di ammortamento relativo all’anno d’imposta in contestazione e da allora tutte le rate sono state regolarmente versate. Elementi di fatto e circostanze concrete –come recita il dispositivo della sentenza“ tali da far apparire la condotta dell’imputato umanamente non rimproverabile agli occhi di qualunque osservatore medio, di qualunque persona, e anche del giudice stesso”.

E’ una bella storia. Non fa male ogni tanto leggere di imprenditori disposti a rischiare se stessi per difendere il pane della gente invece dei tanti disposti a rischiare il pane della gente per difendere i propri interessi. E fa piacere ogni tanto sapere di uomini di legge che trovano l’audacia di trasformare in orientamenti giurisprudenziali principi di giustizia generalmente riconosciuti e riconoscibili.

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