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Volkswagen: la “vettura del popolo” mette in crisi un Paese

Anche Angela Merkel chiede di “fare chiarezza” su quella che nacque sotto il regime nazista come “vettura del popolo”. Perché quando uno scandalo coinvolge una delle aziende sulla quale si regge la credibilità di un Paese, allora non parliamo di gestione della reputazione di Volkswagen e di scandalo emissioni, bensì di terremoto di un sistema. Quello di un Paese le cui regole sono spesso diventate exemplum per gli altri Paesi UE e la cui inflessibilità ha fatto traballare rapporti internazionali. I tempi sono decisamente cambiati dal lancio del primo Maggiolino nel ’73. Un successo deflagrante.

Come la mettiamo ora con uno scandalo che coinvolge i livelli più alti del management e non potrà di certo essere ridotto a “colpe personali”? Perché non è una storia solo italiana che i manager di aziende di questo calibro siano in qualche modo “prodotti” ed emissioni del sistema politico. Oltre al fatto che un’azienda con 592 mila dipendenti è un soggetto della contrattazione politica e sindacale.

Una cosa è certa. Dai dieci anni dello “scandalo prostitute” firmate doppia V l’azienda era risalita a galla e provava a fare il botto sul mercato americano. E se già difficile era lo sbarco oltreoceano a questo punto le cose si faranno ben più serie. E non ci stupiremmo di “barriere” degli States. Perché – e torniamo alla reputazione – parliamo di scontri tra sistemi. In cui le regole dettate dalla Merkel sull’UE si ripercuoto sui mercati mondiali. Sulle loro politiche economiche, sul complesso puzzle dei rapporti internazionali. E ora il problema non sarà controllare i numeri (al momento 11 milioni di auto in giro per il mondo) della contraffazione, bensì quello di non soffocare tra le emissioni. Quelle che derivano da uno scandalo economico e politico che la Merkel ha ben chiaro davanti ai suoi occhi. Soprattutto quando l’accusa per lei è: “Sapeva tutto”. È un brand, il Made in Germany, che potrebbe essere seppellito sotto le macerie dei suoi punti di forza. Forte, rigido, austero.

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Come scrive Il Giornale: oltre al pesantissimo impatto politico, la vicenda si sta ampliando a livello mondiale e, oltre agli Usa, sono sul piede di guerra Francia, Italia, Corea, Australia e la stessa Germania. Con Bruxelles (a trazione tedesca) che per ora frena: «È prematuro dire se anche in Europa siano necessarie immediate misure di controllo», ma giura «approfondimenti». Così, il governo transalpino e il ministero dei Trasporti di Berlino hanno già annunciato che terranno delle inchieste, e anche l’omologo dicastero in Italia ha avviato un’indagine. Intanto, il governo coreano ha convocato i vertici locali della Volkswagen e ha messo sotto la lente le auto vendute nel Paese. Un’indagine che sarà conclusa in novembre. A chiudere il cerchio ieri è intervenuta poi l’Onu, giudicando «estremamente preoccupante» la faccenda. «L’industria automobilistica deve essere un partner in tutti i nostri sforzi per combattere i cambiamenti climatici», ha detto il portavoce dell’Onu, Stéphane Dujarric.

E se da una parte si pensa già a come leccarsi le ferite, dall’altra Toyota si sta già leccando i baffi.

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