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Assegni a “me medesimo”: non superano le presunzioni fiscali

La Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 26 ottobre, n. 23762/15 (link) ha chiarito che gli assegni girati “a me medesimo” dal contribuente non consentono l’identificazione dei destinatari dei pagamenti e risultano pertanto inidonei a supportare la prova che trattasi di costi inerenti l’attività d’impresa.

Come noto, l’accertamento da indagini bancarie, è una metodologia di accertamento attraverso la quale è possibile la ricostruzione della base imponibile tramite metodo presuntivo utilizzando le movimentazioni bancarie.
In particolare, le movimentazioni bancarie che non trovino riscontro nella contabilità o che, comunque, non siano oggetto di giustificazione danno luogo a presunzioni legali relative comportando quindi l’inversione dell’onere della prova a danno del contribuente, onere in taluni casi molto difficile da assolvere (la presunzione legale in questione già superò il vaglio di costituzionalità in relazione agli artt. 3 e 53 Cost. – sentenza Corte cost. in data 8 giugno 2005 n. 225 – cfr. Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13036 del 24/07/2012. Vedi Corte cost. ord. in data 6.7.2000 n. 260; Corte cost. ord. in data 23.5.2008 n. 173; Corte cost. sentenza in data 6.10.2014 n. 228).

Con la presunzione legale relativa, il contribuente si trova quindi a dover dimostrare che i movimenti trovano giustificazione nella contabilità e/o che concernono fatti fiscalmente irrilevanti.
Giova ricordare che i dati che emergono dalle movimentazioni finanziarie, secondo quanto ha stabilito la Cassazione con la Sentenza n. 26790 del 15.11.2007 e n. 21695 del 22.10.2010, rilevano anche nel caso in cui il conto corrente abbia saldo negativo e nel caso in cui le entrate e le uscite abbiano un risultato finale di pareggio.

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Anche se l’Agenzia delle Entrate con Circolare n. 25 del 06.08.2014 ha fornito alcune precisazioni circa il ricorso, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, dell’istituto delle indagini finanziarie, stabilendo che il suo utilizzo è vincolato alla presenza di scostamenti decisamente rilevanti e che lo strumento ha carattere “residuale” rispetto a modalità di ricostruzione del reddito meno invasive.

Sicché la Cassazione con la sentenza de quo ha chiarito che a seguito dell’emissione di assegni girati “a me medesimo” con conseguente incasso del relativo contante, si deve essere sempre pronti a giustificare – attraverso prova documentale – che fine hanno fatto i soldi e a cosa sono serviti, rendendo legittimo l’accertamento fiscale in caso contrario.

Verificatosi infatti l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, questo, posto di fronte alla documentazione di versamenti o prelevamenti evidenziati dai conti bancari o postali e non annotati nelle scritture contabili, dovrà dimostrare che ogni operazione effettuata non si riferisca ad operazioni imponibili o di averne tenuto conto nella dichiarazione.

Come già anticipato, la prova non deve esser generica, dovendo ogni operazione trovare corrispondenza in documentazione contabile o che giustifichi la non attribuzione alla sfera dell’attività fiscalmente rilevante, pertanto nel caso degli assegni “a me medesimo” si capisce come tale prova sia di difficile dimostrazione.

Nel caso di specie, i giudici di appello, osservavano che nei prospetti contabili depositati dallo stesso contribuente risultavano movimentazioni bancarie non giustificate trovando, quindi, applicazioni le presunzioni legali di maggior reddito non dichiarato, e quanto ai documenti giustificativi prodotti che gli stessi (assegni girati “a me medesimo”) “non consentivano la identificazione dei destinatari dei pagamenti risultando quindi inidonei a supportare la prova che trattavasi di costi inerenti l’attività d’impresa”.

La Corte ha espressamente censurato l’impugnazione del contribuente in ordine alla seguente statuizione “la documentazione non consente di individuare i beneficiari dei pagamenti, in particolare con riguardo agli assegni emessi con indicazione beneficiario “M.M.” (me medesimo) e dunque non consente di riferire i prelievi a costi inerenti l’attività d’impresa”, in quanto lo stesso ha semplicemente contrapposto alla valutazione di merito del Giudice d’appello una generica allegazione di aver dimostrato nei gradi di giudizio “precise causali dei versamenti e dei prelevamenti e i nominativi dei beneficiari dei pagamenti” ma “in mancanza della indicazione e trascrizione dei documenti comprovanti tali generiche allegazioni risulta palese il difetto del requisito di autosufficienza del motivo di ricorso”.

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